Inaugurato oggi (4 maggio 2019) ad Andria il progetto “Senza sbarre”, una masseria e un pastificio per l’inclusione dei detenuti.
Il progetto diocesano “Senza sbarre” nato nel 2017 è da oggi realtà. Quella che un tempo era la masseria che ospitava il progetto di comunità del recupero di tossico-dipendenti fondata da don Gelmini, torna a nuova vita, o meglio, ritorna ad essere una “comunità” sociale e rieducativa.
“Questa iniziativa intende aiutare le persone che hanno fatto già esperienza carceraria e sono in via di conclusione oppure che hanno chiuso l’esperienza carcerario ma hanno bisogno di essere aiutati per il reinserimento lavorativo”
ha dichiarato S.E. Mons. Luigi Mansi
“Qui ricevono l’aiuto concreto per imparare un’arte. Imparano a rieducarsi al lavoro e ad avere quindi tutte le carte in regole per rientrare nella società”.
Racconta don Riccardo Agresti:
“Il progetto “Senza Sbarre” è partito a dicembre 2017. A settembre 2018 è stata avviata la comunità semi residenziale, che vede oggi presenti 12 persone, alcune delle quali la sera rientrano in carcere. Gli altri hanno l’obbligo di dimora o sono agli arresti domiciliari”.
Funziona così: i magistrati del Tribunale di sorveglianza e l’area educativa del carcere, se matura la possibilità di una misura alternativa invitano i referenti della comunità a prendere in considerazione il caso; se la persona vuole veramente cambiare vita, loro le offrono la piena disponibilità: questo fa capire l’importanza di fare rete.
“Quasi tutti gli ospiti arrivano al mattino in masseria, accompagnati dai volontari”,
aggiunge il don Agresti
“Dopo la preghiera, tutti al lavoro: dalla pulizia della stalla, ai lavori di giardinaggio, alla cura dei 7 ettari di terra con un uliveto e campi a seminativo intorno alla masseria. Inoltre alcuni imprenditori ci fanno completare lavori avviati in aziende vicine. Il prossimo obiettivo è quello di arrivare ad una ventina di ospiti, e già da giugno, attraverso la misura alternativa di comunità residenziale, permettere ad almeno 5 o 6 di loro di dormire nella masseria e non in carcere”.
La struttura è dotata di un laboratorio per la produzione di pasta, che adesso è utilizzata per il fabbisogno della comunità e distribuita attraverso le parrocchie di Andria, ma l’obiettivo e l’auspicio è di commercializzarla col marchio “A mano libera” già da questo mese nei punti vendita di prodotti del commercio equo e solidale, e successivamente, di venderla nei supermercati.
L’ospitalità non termina con la fine della pena:
“Se un ospite che ha scontato la pena si trova bene, continua a stare nella comunità”.
Prosegue don Agresti:
“Adesso, però, c’è bisogno che la comunità non veda questi nostri fratelli come se fossero condannati a morte con la loro pena. Dietro c’è sempre la persona che varia rieducata. Possiamo imparare molto incontrandoli.”
Ovviamente la pura attività di volontariato non basta per sostenere un progetto ambizioso che ha bisogno di essere supportato anche da valide professionalità, quali una equipe socio-psico-pedagogica, ma don Riccardo Agresti non ha dubbi:
“Siamo mendicanti di Dio: noi chiediamo al signore quello che lui ha voluto che iniziasse. È, questa, l’unica comunità che abbraccia i carcerati. Certo, ci sono associazioni, ma non così com’è stata concepita e strutturata la masseria San Vittore. Lo Stato e quindi il governo centrale impiega circa € 200 al giorno per mantenere un detenuto in carcere mentre con la misura alternativa, individuando progettualità come la nostra, potrebbe dimezzare le spese. Oltretutto, permetteremmo la riqualificazione di tanti soggetti che verrebbero meglio reinseriti nella società».
È questa la vera sfida del progetto legato alla masseria San Vittore:
il Governo dovrebbe considerare la possibilità di misure alternative al carcere come il progetto della comunità “Senza Sbarre” che, oltre a rieducare i soggetti, favorirebbe il reinserimento reale degli stessi nel contesto sociale e contribuirebbero a ridurre l’attuale spesa pubblica dal momento che “mantenere” in carcere un soggetto costa di più che rieducarlo.
E’ questa la sfida di questo progetto, e di tutti i progetti raccontati da “Storie di cibo dietro le sbarre”:
rendere autonome le attività, le produzioni, per sgravare da un lato lo Stato e i cittadini dalle conseguenti tasse e dall’altro per rendere autonome queste persone, con il valore del denaro, del lavoro e dell’importantissima dignità.
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